lunedì 1 febbraio 2021

CASTELLI MALEDETTI




C’è un castello eretto tra l’XI e il XII secolo nel paese di Belveglio, in quella che anticamente è stata battezzata come la Terra dei Malamorte. La costruzione sovrastava l’allora villaggio da una collina di tufo, ma, a vederla dal basso, chiazzata dalle ombre del fogliame a ridosso delle sponde del fiume Tanaro, ancora oggi sembra pronta a svettare verso il cielo con la prepotente postura di un cavallo imbizzarrito.

Il castello venne abitato dal nobile Carlo Maria Matteo Farnese, duca di Parma e Piacenza, conte di Ronciglione e nipote di papa Paolo III. Fuggito da Piacenza dopo la congiura ordita da Ferrante Gonzaga (con cui quest’ultimo aveva spodestato suo padre Pier Luigi Farnese trucidato dagli sgherri di Carlo V) e la conseguente consegna della città nelle mani delle truppe spagnole, Matteo Farnese si era arroccato nel castello di Belveglio, costruito ai confini con le sue terre, insieme alla moglie Zeusa Ellenica. A fargli da scorta, un discreto numero di uomini armati.

Verso la metà del XVI secolo il castello venne posto sotto assedio dagli spagnoli che però non trovarono vita facile nell’espugnare il maniero. Il palazzo nobiliare era chiuso all’interno della cinta di mura possenti, in più le feritoie a croce per i balestrieri, il muro di cortina con i bastioni e le saracinesche erano state capaci di rendere inespugnabile quel luogo tanto da costringere gli spagnoli ad un assedio che durò tre anni. La resistenza da parte degli assediati deve merito anche della ricca rete di pozzi in grado di garantire l’acqua oltre ai mille camminamenti segreti che consentivano continui rifornimenti di viveri freschi. Ma alla fine il duca Matteo Farnese dovette cedere e il 15 marzo 1551 il castello capitolò. E a questo proposito le cronache del tempo narravano anche altro. Ovvero, del trasferimento di un tesoro di sette tonnellate d’oro in un luogo segreto ricavato nelle gallerie scavate sotto l’edificio. Ma con il passare del tempo e nonostante il gran numero di ricerche (continuate peraltro fino agli inizi dei nostri anni sessanta con l’ausilio anche di studiosi, medium e rabdomanti tanto da far invidia agli archeologi hollywoodiani da Nicholas Cage con i suoi tesori dei Templari fino alle spedizioni di Indiana Jones e similari di cui il cinema ci ha riportato testimonianze in ogni parte del mondo) nessuno riuscì ad impossessarsi dei preziosi, soprattutto a causa della mancanza di una mappa dettagliata capace di fare luce sulla ragnatela sotterranea del castello fatta di gallerie e locali. In più, all’epoca, i soldati che avevano provveduto all’intera operazione erano i soli a conoscenza del nascondiglio, ma per fedeltà nei confronti del duca Carlo Maria Matteo Farnese, si erano suicidati dopo aver fatto crollare le gallerie d’accesso, così come aveva ordinato il nobile prima di ingerire una dose di veleno insieme alla consorte.

Il soprannome Malamorte deriva probabilmente dai violenti scontri e dalle sanguinose battaglie del passato, magari rafforzato dal fatto che il castello per un certo periodo fu trasformato in carcere e luogo di esecuzione di condanne a morte. Al tempo correva voce che i popolani evitassero con cura di passare sotto il colle di Belveglio per timore di udire lamenti, vedere fiamme o di incontrare i fantasmi di tutti coloro che erano stati torturati nelle segrete, oppure impiccati con i loro corpi lasciati imputridire sugli spalti e sulle vie d’accesso alla fortificazione. Con il ritiro delle truppe spagnole si erano placate le lotte feroci per il controllo del territorio ma il ricordo del sangue versato e le tante leggende sulle sorti dello stesso castello turbavano gli animi dei più. In più restava in piedi il mistero dell’inestimabile tesoro nascosto nei sotterranei infestati dalle anime dannate di chi aveva subito il tormento della carne e una morte lenta e terribile.

Senza voler scomodare Il Castello di Otranto di Horace Walpole (pubblicato nel 1794 e capofila del genere gotico) o le tetre atmosfere del castello di Bran (sul confine tra la Transilvania e la Valacchia) reso alla cultura popolare da Bram Stoker con il suo Dracula nel 1897, trovo che quella di Belveglio sia una storia rappresentativa di mille altre, senza nulla da invidiare alle vicende dei Cavalieri della Tavola Rotonda, agli sconfinamenti predatori dei Vichinghi in terra inglese, o agli assalti di Giovanna d’Arco alle mura fortificate di Parigi dopo assedi snervanti. Si lega perfettamente al ricco patrimonio di castelli costruiti sul nostro territorio anche in zone impervie o inaccessibili. E traccia in sé i mille ingredienti che fanno di ogni maniero un perfetto collage di storia vera e leggenda, immagine emblematica di misteri più o meno occulti che avvolgono la maggior parte di loro. Che dire in proposito? Come esempio fra i tanti, posso citare quello del castello di Roccascalegna in Abruzzo e dell’indelebile impronta di sangue della mano del barone ucciso da un marito ribellatosi allo jus primae noctis, traccia che riappare ogni volta sui muri nonostante i vari interventi di restauro succedutisi negli anni. Una suggestione questa che lo rende luogo ideale per ambientazioni letterarie horror e soprannaturali.

Mentre storicamente i castelli sono simbolo del nostro travagliato passato (seppur oggi questo patrimonio straordinario sia quasi del tutto dimenticato se non addirittura relegato a cumuli di macerie quasi ingestibili, basti pensare a quello più vicino a casa nostra, il castello di Casalbagliano), queste architetture rappresentano anche le trasformazioni e le diverse composizioni delle nostre aree geografiche, sono contenitori di intrighi, alleanze militari e di guerre altrui combattute a casa nostra e che nei secoli hanno pesantemente influito sulla nostra cultura (niente a che vedere con le tanto temute correnti migratorie di oggi), la stessa parola castello potrebbe essere utilizzata come sinonimo di guerra, invasione, crudeltà, torture, catene, intrighi di palazzo, vendetta, gelosie, damigelle e cavalieri, arroganza di signorotti e nobili nei confronti dei più umili. E contenitore di vampiri, fantasmi, ritratti maledetti, visioni di creature come aliti di vento, che filtrano tra mura che hanno segnato i destini di tutta l’Europa.

Pertanto, complimenti agli autori degli undici racconti che compongono l’antologia Castelli Maledetti (recentemente pubblicata da Nero Press Editore) abili a toccare questi argomenti utilizzando punti di vista molto diversi tra loro e relativi sbalzi temporali. E senza andarci troppo cauti nel raccontare le loro storie sempre mantenendosi in punta di penna. Ingordigia, paura e scaramanzia in un’epoca ormai lontana hanno trasformano gli uomini in belve assetate di sangue e del sangue versato si sono nutrite anime dannate che si agitano inquiete tormentate dalla propria sete di vendetta. Spettri capaci di insediarsi per l’eternità nei loro luoghi di appartenenza, in equilibrio sul confine tra vero e fantastico, oltre quel muro che separa la vita apparentemente immobile e granitica di un castello dall’universo storico che gli ruota attorno senza sosta. Una pletora di spiriti che non chiedono altro se non di essere raccontati insieme ai fatti che sconvolsero la loro esistenza terrena, spiriti che animano queste pagine ma che, forti della loro discrezione, non osano disturbare chi oggi nei castelli assiste a concerti di musica classica o lì si sposa, magari con la recondita speranza che qualche evento sovrannaturale posso animare la cerimonia fino a rendere indimenticabile il giorno del matrimonio più che la promessa del reciproco amore eterno.

 

Gli autori di Castelli Maledetti


  • Danilo Arona
  • Fabrizio Borgio
  • Paolo Campana
  • Emanuele Delmiglio
  • David Ferrante
  • Flavia Imperi
  • Roberto Masini
  • Luigi Milani
  • Maico Morellini
  • Beppe Roncari
  • Laura Scaramozzino


venerdì 9 agosto 2013

Io sono le voci

Danilo Arona
IO SONO LE VOCI
Edizioni Anordest 2013, pagg. 358  €. 12,90


Non ho mai riflettuto troppo sul concetto di romanzo storico, convinto che una qualunque trama con la pretesa di avere radici ben salde nel contesto sociale narrato (che non sia la stretta quotidianità), porti necessariamente in sé le atmosfere di un mondo da guardare con la testa rivolta all’indietro. E a farla da padrona devono essere memoria, lucidità del ricordo e sapiente descrizione dell’emozione che tutto ciò resuscita nello scrittore. Così come l’ambientazione, precisa ma allo stesso tempo funzionale senza essere didascalica, e i personaggi, espressione di un profilo adeguato alla realtà in cui sono incarnati e che di quella realtà sono soprattutto portatori di pensieri, cultura e costume. Però tutto ciò non sembra essere sufficiente. L’elemento che permette di battezzare come “storico” un romanzo è stato dettato da critici e accademici (che di regole sono maestri) i quali hanno sancito che devono essere trascorsi almeno cinquant’anni. Come le macchine d’epoca.
Il che escluderebbe dalla partita Io sono le voci, di Danilo Arona. Scartato per un cavillo procedurale, si potrebbe dire, visto che il cuore della trama si sviluppa negli anni settanta e la matematica non è un’opinione. I cinquant’anni sono ancora da venire. Per un punto Martino ha perso l’asino, si dice nella terra di Bassavilla, tanto cara a Danilo Arona. Allora, schema per schema, andiamo sul sicuro: classifichiamo Io sono le voci come un thriller. Un noir. Così tagliamo la testa al toro. Che probabilmente thriller lo è pure, non mancano gli elementi classici del noir e la suspence è sempre pronta ad aggredire il lettore. Poi si può anche rilevare che a tratti la scrittura rivela la ormai nota famigliarità per il genere horror e per i suoi avvitamenti tra incubi e paranormale. Ma ciò che dà forza al romanzo è il salto nel passato compiuto dall’autore, dove si ipotizza “una linea di sangue che parte dal 1961 per continuare ancora oggi”. Ogni pagina è affilata, un colpo di bisturi dietro l’altro per vivisezionare gli elementi portanti, ovvero gli spaccati di storia sociale e di costume cui la trama fa riferimento. Il tutto valorizzato dallo strumento che Arona ben conosce e ben padroneggia, cioè il cinema. E così rispolvera una lunga carrellata di pellicole. Una cinquantina di titoli scorrono nell’impianto narrativo, quasi tutte prodotte fino alla fine degli anni settanta. Si racconta un cinema fatto non solo di immagini, ma cresciuto tra le pieghe intellettuali e un po’ maniacali di cinefili e cineforum. Riprendono vita (con tratti leggerissimi di penna) le atmosfere di quando al cinema si fumava, le seggiole di legno scricchiolavano mentre la luce del proiettore assorbiva volute di nebbia alle spalle di uno spettatore a volte distratto da flash sullo schermo a indicare le rotture di una pellicola usurata e rimessa insieme con un taglio netto di forbici e una spennellata di acetone. Gli anni in cui il cinema era capace di far vivere emozioni forti con espedienti molto artigianali, la sensualità di gambe velate e accavallate, la passione di un amplesso tra corpi attorcigliati da pudiche lenzuola. Immagini spesso sfocate, e suoni distorti dalle proiezioni fatte in cinema all’aperto spesso in compagnia di zanzare e qualche pipistrello. E la paura, fatta di primi piani di lame a mezz’aria, di mani guantate e soprabiti neri e lucidi, bagnati di pioggia notturna. Ed è proprio attraverso queste stesse emozioni dei protagonisti di Io sono le voci, maturate nel tempo, fin dagli anni della loro difficile adolescenza, che si snoda la follia di cui si nutre l’intera vicenda. “Da sempre in Italia avvengono omicidi inspiegabili che sembrano trovare una loro magra giustificazione nella ferocia esibita.” Sottolinea lo stesso Arona “Dagli anni Sessanta,poi, è in atto un’escalation. Prima in una città di provincia nel nord Italia. Poi a Milano nel decennio successivo con giovani donne trucidate attraverso modalità di raro sadismo.”
La vera protagonista è una giovane e determinata giornalista investigativa dei giorni nostri, Cassandra Giordano, che scopre un impensabile filo rosso che collega  delitti tra loro lontani nel tempo e nella geografia: la visione di certi film, il cosiddetto effetto Copycat (uno dei più recenti e clamorosi esempi è la strage di Aurora avvenuta in concomitanza con la prima di The Dark Knight Rises, l’ultimo film di Batman) le voci nel cervello che spingono a uccidere emulando gli omicidi passati sullo schermo. Cassandra stessa ne diventa vittima, passa il testimone alla sorella Arianna e a un ispettore di polizia. Le indagini prendono il via. Da Bassavilla fino ad una  Milano che si trasforma in un sanguinario set cinematografico. Fino a smascherare le prime avvisaglie del dopoguerra e proseguendo il percorso agli anni settanta, quando la cronaca nera era soffocata dall’incalzare di avvenimenti politici ben più gravi. Strategia della tensione e Brigate Rosse rubano la scena a casi autentici e mai risolti
Una scrittura quasi a sequenze, resa ancor più incalzante dallo stile tipico di Arona dove le vicende si muovono in una continua miscellanea di ingredienti che si intrecciano tra una potente prosa narrativa, deviazioni dal sapore saggistico e scioltezza nella forma giornalistica. In Io sono le voci resta solo da chiarire quanto Danilo Arona ami di più la letteratura o il cinema, ma è meglio non rivolgergli questa domanda. Meglio non farsi ingannare dall’abilità con cui si destreggia nel mondo del cinema, o dalla ricca produzione letteraria che ne ha caratterizzato i suoi ultimi anni da scrittore. Potrebbe tacere, alzarsi con aria un po’ mesta e prendere in mano una chitarra.
Del resto Il vento urla Mary, e per lui urlerà sempre.

giovedì 11 luglio 2013

uomo dei temporali



E' disponibile in anteprima la versione ebook de
 L'Uomo dei temporali

per l'edizione cartacea l'appuntamento è con il 4 settembre





Alessandria, 1940.
I vantati successi militari del regime fascista, che da tre mesi ha trascinato l’Italia in guerra al fianco del suo alleato nazista, infervorano la propaganda, ma non il cuore del commissario Augusto Maria Bendicò, costretto a indagare sull'omicidio di Onofrio Scipioni detto Dede, una vecchia conoscenza della polizia, ritrovato morto nel suo appartamento dopo una spietata esecuzione. Tra le atmosfere autunnali di Alessandria, il commissario Bendicò, uomo di poche parole e dall’ironia affilata, avrebbe ben altro per la testa, che non dedicarsi alle indagini sulla morte di un balordo di mezza tacca: affrontare e accettare la morte della moglie che ha lasciato nel suo cuore un vuoto incolmabile e scacciare dalla sua mente i ricordi della prima guerra mondiale a cui aveva partecipato in veste di tenente. Il poliziotto dovrà anche fare i conti con la verità che piano piano viene a galla: Dede non era il piccolo criminale che tutti credevano, ma il perno attorno cui ruotava un mondo sotterraneo fatto di scommesse, prostituzione, contrabbando. La città si scoperchia così su un mondo schiacciato dal peso del ricatto e dello scandalo, mandando in frantumi le certezze di molti. Per consegnare un colpevole al questore Zappìa, però, il commissario dovrà scavare ancora più a fondo, nella propria coscienza e in quella di un Paese che sembra aver perso del tutto l’innocenza, muovendosi con determinazione tra le pieghe del fascino di un’epoca in bianco e nero e di una città, dal cielo sempre velato, che sembra vivere sospesa. Attendendo l’uomo dei temporali.

E' possibile acquistarlo:
http://libreriarizzoli.corriere.it/L-uomo-dei-temporali/xCasEWcWJgoAAAE_NI8eZBVs/pc?CatalogCategoryID=HaqsEWcWKYoAAAErBLkdhq_J&Root=eBook

lunedì 16 gennaio 2012

segnalazione, ONRYO, Avatar di morte, collana Urania/Mondadori


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In piena rivoluzione informatica, nel mondo tecnologico gli esseri inquietanti che la tradizione chiama onryo si manifestano ancora. Sono uomini e donne morti in circostanze particolari i cui avatar hanno conservato la capacità di fare del male. In questa superba antologia dove il futuro si mescola a riti antichissimi, ce ne raccontano le crudeli avventure specialisti come Danilo Arona, Alessandro Defilippi, Stefano Di Marino, Angelo Marenzana, Samuel Marolla e autori giapponesi del calibro di Hiroko Minagawa, Nanami Kamon, Yoshiki Shibata e Sakyo Komatsu, il grande scrittore scomparso nel 2011.